WORKING FROM HOME: UK DAVANTI ALL’ITALIA

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L’improvvisa diffusione del Covid-19 ha pervaso e modificato la nostra vita praticamente in ogni aspetto, e uno di questi è senza dubbio l’ambito lavorativo. Con l’arrivo del virus e la suc- cessiva dichiarazione di pandemia da parte dell’OMS, il lavoro ha dovuto ne- cessariamente cambiare i propri ritmi. Da mesi ormai risuona la parola “smart working”, usata, probabilmente, in modo improprio dagli italiani, nella convinzione che si tratti di un termine di origine inglese. In realtà si tratta di uno pseudoanglicismo, in quanto, nel Regno Unito il lavoro flessibile vie- ne piuttosto definito “working from home” o “remote working”, ma le differenze tra i due paesi sul tema vanno ben oltre la terminologia.

Se a marzo l’Italia si è trovata impreparata e di fronte alla necessità di avviare una sperimentazione del lavoro flessibile in un momento di crisi mondiale, il Regno Unito ha dovuto solo implementare la struttura già avviata da anni. Uno studio di Euro- found e dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro ha dimostrato, già nel 2017, che l’Italia si trova tra gli ultimi paesi nell’utilizzo del lavoro da casa, a differenza del Regno Unito, in testa con i paesi nordici. L’Inghilterra è tra i paesi pionieri della materia, tanto che nel 2014 il governo ha approvato la Flexible Working Regulation, che fornisce il diritto ai lavoratori di richiedere la possibilità di lavorare in remoto, rifiutabile dai datori di lavoro solo per ragionevoli motivi e in casi specifici. Il paese della Regina da tempo dimostra una particolare attenzione verso il benessere dei lavoratori, e alla ovvia necessità di riduzione dei costi da parte dell’imprese, derivanti dalla riduzione degli spazi fisici. Uno studio HSBC dimostra che l’89% dei dipendenti britannici ritiene che il lavoro flessibile accresca i livelli di produttività, e una ricerca dell’azienda cinese Lenovo sottolinea che il 57% degli intervista- ti non avverte la necessità di recarsi al lavoro. L’emergenza dei mesi scorsi non ha quindi sorpreso gli inglesi, e molte società hanno colto l’occasione per comunicare che continueranno sulla presente linea. Se i dipendenti stanno accettando di buon grado la situazione così non sembra essere per il sindaco di Londra, Sadiq Khan, che, di fronte al deserto della City e di Ca- nary Wharf, le zone del business della capitale inglese, ha fatto appello ai la- voratori di tornare in ufficio per evita- re il fallimento dei tanti bar, ristoranti e negozietti vari presenti nell’area, che vivono del fermento diurno dei dipendenti.

La situazione italiana è invece totalmente diversa, sebbene il Parlamento Europeo abbia emanato nel 2016 il principio generale circa la creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e professionale, il belpaese non è riuscito a tenere il passo con gran parte dei paesi del vecchio continente. Al momento non c’è ancora una legge che regolamenti tale modalità lavorativa, ma solo il Decreto Legge di maggio, inerente l’attuale situazione di emergenza, in vigore fino al mese di dicembre. Eppure il concetto non è nuovo, già quaranta anni fa il sociolo- go italiano Domenico De Masi citava le potenzialità di quello che, originariamente era chiamato telelavoro, sottolineandone la capacità di diminuire l’inquinamento e i costi del trasporto per i dipendenti, consentendo una migliore organizzazione del proprio tempo, oltre al notevole risparmio dell’azienda relativo alla gestione dei luoghi fisici di lavoro.

È chiaro che il definitivo passaggio ad una cultura di lavoro flessibile, come appare nel Regno Unito, richieda un’idonea formazione, che l’emergenza sanitaria degli ultimi mesi ha impedito, costringendo i lavoratori italiani a misurarsi con una nuova realtà ancora non ben definita.