Dall’acquisizione nel 2018 del suo autoritratto in veste di Santa Caterina d’Alessandria, l’idea di rendere omaggio alla celebre pittrice barocca ha preso corpo e consistenza per arrivare alla mega mostra allestita alla National Gallery, la prima in assoluto su Artemisia Gentileschi in UK. Dopotutto c’era già l’aggancio inglese con suo padre Orazio, invitato a Corte da Charles I, suo grande estimatore come la moglie Enrichetta, imbevuta di arte italiana sulle ginocchia della madre Maria de’ Medici.
Tuttavia Artemisia, pittrice del ‘600 è stata restituita ai valori dell’Arte e alla memoria dei vivi solo di recente, dal critico Roberto Longhi, e tocca ora alla National Gallery di renderle omaggio con una mostra in calendario dal 3 ottobre fino al prossimo 24 gennaio. Un tributo sostenuto dalla Banca italiana ISP, fortemente voluto dal direttore della National Gallery Gabriele Finaldi che durante la presentazione online alla stampa ha definito la pittrice un fenomeno del suo tempo, con talento straordinario ed energico carattere, che la impose all’attenzione dei suoi contemporanei e fa meravigliare ancora il pubblico moderno.
Nata a Roma nel 1598 a Roma da famiglia pisana e nonna fiorentina (a cui si deve il cognome Gentileschi), orfana di madre, Artemisia dovette farne le veci con i fratelli minori mentre il padre andava per lavoro dai vari committenti. Contemporaneamente assorbiva dal medesimo la tavolozza dei colori dalle tinte caravaggesche (Merisi era amico di Orazio) e si immedesimava in un’arte che la fece sbocciare a 17 anni col suo primo dipinto, una “Susanna e i vecchioni”. Quasi una premonizione dell’insidia sessuale, sfociata in stupro poco dopo da parte di Agostino Tassi, collega di Orazio, messo in casa per perfezionare l’arte della figlia. Primo quadro anche della mostra, con una casta Susanna espressivamente disgustata dalle laide proposte, Artemisia già anticipa una risolutezza pittorica al femminile pari a quella del suo temperamento. Infatti, a differenza della Susanna biblica, Artemisia non accetta l’umiliazione di una ingiusta accusa e affronta in tribunale lo stupratore e la morale del tempo, subendo torture fisiche e morali, ma ottenendo il giusto riconoscimento. In mostra anche la documentazione del processo prestata dall’Archivio di Stato di Roma, in cui traspare una dignità e forza d’animo insolite in una donna, per non parlare della società dell’epoca. Tassi fu bandito, ma Artemisia per fuggire l’aria rarefatta attorno al suo caso, dovette sposarsi per cominciare un nuovo capitolo. Il vantaggio fu di andare in Toscana e a Firenze, con la libertà della donna sposata , si guadagnò ammiratori, promotori e sponsor, fra cui Cosimo II, per cui dipinse una delle due celebri “Giuditta che decapita Oloferne”, presenti nella mostra.
Quello appunto del 1620 prestato dagli Uffizi è un capolavoro che inchioda gli spettatori per il gusto ferino con cui l’eroina biblica taglia la testa: una brutale macellazione eseguita con ferocia da Giuditta e compagna, una scena horror al femminile che sprigiona più potenza dell’omonima tela di Caravaggio. Così realistica che fu relegata in stanze secondarie dal Granduca e solo grazie all’intervento di Galileo, suo amico, Artemisia fu pagata. Questa allora adottò un’altra strategia di marketing, secondo la curatrice Letizia Traves, e nelle sale successive si vede una serie di autoritratti allegorici come Santa Caterina o la suonatrice di liuto, cioè usò se stessa per promuoversi e infatti l’Allegoria dell’Inclinazione fu commissionata per esempio dal nipote di Michelangelo, suo ammiratore.
L’apoteosi fiorentina culminò con l’ammissione alla prestigiosa Accademia del Disegno, prima donna ad avere tale onore, che la consacrò artista a tutti gli effetti. Purtroppo il matrimonio non andava a gonfie vele come il lavoro, il marito si rivelò un parassita scialacquatore e Artemisia decise di tornare a Roma, dove riprese a lavorare col padre e potè così immergersi in una comunità internazionale. Sono di questo periodo altre tele bibliche e storiche in mostra, come la provocante Morte di Cleopatra o la spettacolare Maddalena in Estasi, riscoperta nel 2014. Col padre fece anche un salto a Venezia: la sua “Ester e Assuero”, messa accanto alla più edulcorata e morbida tela di Orazio, dimostra la padronanza e la maturità acquisite, senza alterare l’estro drammatico e passionale della sua arte derivante dalla sua forte personalità.
Nel 1630 tuttavia si stabilisce a Napoli, il cui ambiente artistico le era più consono e dove tenne anche scuola di pittura, cimentandosi fra l‘altro in tre opere sacre per la prima volta, con l’immancabile San Gennaro. E a Napoli tornò ( e morì, probabilmente travolta dalla peste del 1656) dopo l’intervallo inglese. La troviamo infatti a Londra nel 1638 e nell’ultima stanza della mostra, che appropriatamente espone il suo ritratto nell’allegoria della Pittura, proprietà Windsor, insieme con un’altra Susanna e i Vecchioni, ritenuta la sua ultima opera, a chiusura del ciclo pittorico alla National Gallery: riscoperta nel 2008, è un’opera “addolcita”, forse per compiacere i committenti, forse per l’evoluzione artistica e temperamentale.
E sull’onda del rinnovato interesse per Artemisia che ha portato a questa splendida esposizione, forse riaffioreranno altri suoi dipinti e altre biografie. Fra queste tuttavia si distingue per lo stile impavido, spavaldo e vulnerabile come la protagonista, il racconto di Anna Banti ,“Artemisia”: un romanzo in cui scrittrice e pittrice si confrontano e si confondono con una prosa incalzante e coinvolgente che fa eco alle parole di Artemisia; “vi mostrerò di cosa è capace una donna”.
Margherita CADERONI