A nulla son servite le richieste di “modifiche sostanziali” da parte di molti Comites, del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE) e delle forze d’opposizione: lo scorso 20 maggio la Camera ha approvato in via definitiva il drastico giro di vite sulla cittadinanza italiana all’estero deciso dal governo Meloni con un decreto-legge.
D’ora in poi diventa più difficile per i discendenti degli emigrati italiani avere o mantenere la cittadinanza del loro Paese d’origine. Ne avranno infatti diritto automaticamente soltanto se hanno almeno un genitore o un nonno con questi requisiti: nato in Italia e privo di una seconda cittadinanza. Di fatto questo diritto si perde dopo due generazioni al massimo. Non basta: per conservare la cittadinanza italiana bisognerà “mantenere nel tempo legami reali con l’Italia, esercitando i diritti e i doveri del cittadino almeno una volta ogni venticinque anni”.
Malgrado il forte malumore degli italiani all’estero (in particolare gli oriundi del Nord e Sud America) questa stretta – approvata dalla Camera con 137 voti favorevoli, 83 contrari e 2 astenuti dopo che il Senato aveva dato luce verde 5 giorni prima – e’ stata difesa a spada tratta dal ministro degli Esteri Antonio Tajani: secondo lui si tratta di “un provvedimento voluto per restituire dignità e significato a un diritto che deve fondarsi su un legame autentico con l’Italia, non solo burocratico, ma culturale, civico e identitario”.
“La cittadinanza – ha argomentato il capo della diplomazia italiana – deve essere un riconoscimento serio e consapevole, che si conferma attraverso l’impegno. Questa riforma non esclude, ma responsabilizza. Propone criteri più selettivi e trasparenti, capaci di rafforzare l’integrità del nostro sistema e prevenire abusi. Non si procederà più a riconoscimenti automatici a favore di persone nate all’estero che non abbiano almeno un genitore o un nonno di cittadinanza esclusivamente italiana. I figli dei cittadini italiani nati all’estero avranno comunque la possibilità di acquisire la cittadinanza se i genitori ne faranno richiesta”.
Dal giro di vite aveva preso le distanze il CGIE che aveva avvertito come “sin dalla sua emanazione il provvedimento ha sollevato allarme e incertezza tra i cittadini italiani residenti all’estero e tra coloro che, in linea con la normativa fino a quel momento vigente, avevano già avviato o intendevano avviare un percorso di riconoscimento della cittadinanza”.
“L’interpretazione eccessivamente restrittiva delle nuove norme per discendenza iure sanguinis finirebbe – aveva puntualizzato il Consiglio creato in rappresentanza degli italiani iscritti all’Aire – per determinare sentimenti di disaffezione e, nel giro di due o tre generazioni, rischierebbe di compromettere il rapporto tra le comunità degli italo discendenti e l’Italia”.
Pur d’accordo in linea di principio sulla necessità di una riforma della cittadinanza all’estero, il CGIE aveva chiesto in particolare al governo di “riconsiderare la disposizione che subordina il riconoscimento della cittadinanza al requisito che l’ascendente italiano sia nato in Italia o vi abbia risieduto per almeno due anni continuativi prima della nascita del richiedente” in quanto si tratta di una misura che, unita alla nuova limitazione a due sole generazioni, “rappresenta un cambiamento drastico e improvviso rispetto al quadro normativo precedente”.
Il CGIE aveva lanciato inutilmente un appello al governo affinché’ accettasse “proposte migliorative” e dimostri “senso di responsabilità e visione strategica ascoltando le istanze delle collettività italiane nel mondo che costituiscono una risorsa e chiedono di salvaguardare il diritto al riconoscimento della cittadinanza da parte di chi ha un’identità italiana e mantiene un legame effettivo con il Paese a prescindere dal numero di generazioni”.
Sulla necessità di emendamenti “migliorativi” aveva insistito anche la principale forza d’opposizione, il Partito Democratico, che tramite il Senatore Francesco Giacobbe ne aveva presentati più di uno per “garantire l’automaticità del riacquisto della cittadinanza, anche per quelli che l’avevano perso loro malgrado a causa della rinuncia del capofamiglia, cioè la moglie e i figli minorenni; prevedere la gratuità della dichiarazione necessaria al riacquisto; assicurare il diritto al riacquisto anche agli italiani nati all’estero, che ad oggi sarebbero esclusi da questa finestra”. Ma niente da fare, la mobilitazione non ha portato a grandi frutti.