Pandemia? No, ormai è sindemia

    L’emergenza è anche economica, sociale e psichica

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    Pandemia è diventata una parola riduttiva per la crisi che l’umanità sta vivendo, una specie di tempesta perfetta con enormi ricadute economiche, sociali e psichiche.

      Sondaggi, inchieste e studi parlano chiaro: metà delle persone contagiate manifesta disturbi psichiatrici con un’incidenza del 42% di ansia o insonnia, del 28% di disturbo post-traumatico da stress e del 20% di disturbo ossessivo-compulsivo.

       Non basta: il 32% di chi è venuto in contatto col virus sviluppa sintomi depressivi, un’incidenza fino a cinque volte più alta rispetto alla popolazione generale. Il disagio psichico riguarda anche chi non è stato toccato direttamente dal virus: fra i familiari dei circa 86.000 pazienti deceduti, almeno il 10% andrà incontro a depressione entro un anno. 

       La crisi economica innescata dalla pandemia incrementa a sua volta il disagio mentale in tutta la popolazione: il rischio di depressione raddoppia in chi ha un reddito inferiore ai 15.000 euro all’anno e triplica in chi è disoccupato. Si stima così che soltanto in Italia saranno almeno 150.000 i nuovi casi di depressione dovuti alla disoccupazione da pandemia, ma la situazione potrebbe perfino peggiorare perché tutte le condizioni di fragilità sanitaria, emotiva, sociale che si stanno creando   non sommano, ma moltiplicano esponenzialmente le loro conseguenze negative sul benessere psicofisico della popolazione. Ad alto rischio soprattutto donne, giovani e anziani; le prime già più predisposte alla depressione e più toccate dalle ripercussioni sociali e lavorative, i secondi che hanno visto modificarsi la loro vita di relazione e patiscono gli effetti della crisi sull’occupazione, e gli anziani, più fragili di fronte ai contagi e disturbi mentali.

      Questo quadro inquietante è stato tratteggiato a fine gennaio dagli esperti intervenuti al XXII congresso nazionale della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia, organizzato online.

        Gli esperti non parlano più di pandemia, preferiscono un altro termine di origine inglese: sindemia. “Le condizioni sanitarie, economiche, sociali che si sono create a seguito della pandemia di Covid-19 hanno portato a una vera sindemia: alla malattia connessa all’infezione si è aggiunto un impatto enorme sul benessere psichico di tutta la popolazione, sia di chi è venuto a contatto col virus in maniera diretta, sia di chi non è stato contagiato ma vive sulla sua pelle le conseguenze della crisi in corso”, ha indicato Claudio Mencacci, co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia e direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano.

         “Con il prolungarsi dello stato di emergenza e delle restrizioni alla socialità, al lavoro, alla possibilità di programmare un futuro, anche chi non è stato contagiato – ha spiegato Matteo Balestrieri, co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia e professore ordinario di Psichiatria all’Università di Udine – è sull’orlo di una crisi di nervi: dopo una fase iniziale in cui si è fatto il possibile per resistere e si combatteva soprattutto la paura del virus, ora sono subentrati l’esaurimento, la stanchezza, talvolta la rabbia. E ciò che preoccupa è soprattutto l’ondata di malessere mentale indotta dalla crisi economica: le condizioni ambientali e socio-economiche hanno infatti un grosso peso sul benessere psichico della popolazione e la pandemia di Covid-19 sta creando le premesse per il dilagare del disagio”.

       In effetti la parola “sindemia” ha trovato gia’ piena cittadinanza sull’enciclopedia Treccani dove viene definita come “l’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, caratterizzata da pesanti ripercussioni, in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata. Dall’inglese syndemic, a sua volta da syn(ergy) (‘sinergia’) o syn(ergistic) (‘sinergico’) ed (epi)demic (‘epidemia’)”.      A quanto dicono i linguisti il termine è stato introdotto negli anni Novanta del secolo scorso da un lungimirante antropologo medico britannico, Merril Singer, per significare gli effetti negativi sulle persone e sull’intera società prodotta dall’interazione