A proposito di emigrazione… Ricordando la tragedia di Marcinelle

A proposito di emigrazione… Ricordando la tragedia di Marcinelle

Incontro con Giuseppe Palladini a Morro d’Oro in provincia di Teramo

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Suo padre partì con una valigia di legno allettato dalle rosee previsioni di lavoro e di guadagno in Belgio (vedi poster rosa). Ma era un cappio al collo e molti morirono soffocati. A mille metri sotto terra nelle miniere di carbone. Obbligatorio almeno un anno di permanenza e ti ritiravano il passaporto. O ti facevi sostituire dal un membro della famiglia, di robusta costituzione, sotto i 35 anni. Viaggio in carri bestiame e alloggi nei campi di concentra- mento dove i nazisti avevano tenuto i prigionieri russi. Per ogni italiano che scendeva nei pozzi, l’Italia riceveva 20 Kg di carbone, ma le spese venivano detratte dalla paga del minatore.
Questo ed altro racconta Giuseppe Palladini, nato nel 1944, che emigrò il 16 maggio del 1953 e fu testimone della tragedia di Marcinelle, che l’8 agosto 1956 fece 262 vittime di cui 136 italiani: di questi, 60 abruzzesi, come i Palladini. Suo padre lavorava nella miniera di Boubier du Chatelet, accanto a quella di Bois du Cazier dove
successe la tragedia e anche lui rimase intrappolato per 5 giorni in una galleria che crollò: dopo non se la sentì più di tornare a 1250m sotto terra, a scavare a 33 gradi, e Giuseppe a 17 anni prese il suo posto, lasciando la scuola. “Sono stato fortunato – dice un giorno le locomotrici che trasportavano i vagoni agli ascensori fecero un frontale. Poiché con le macchine ci sapevo fare, mi chiesero se potevo sistemarne una: rimasi da solo tutta una notte giù a 900m e le rimisi a posto tutte e due. Il direttore parlò col proprietario e mi raddoppiarono la paga: con quei soldi mi comprai la prima bici da corsa per sostituire quella che mi aveva compra- to tempo addietro il parroco perché tutti i miei coetanei avevano la bici- cletta e io no.”
Fu la svolta della sua vita. Avendo individuato un fuoriclasse della meccani- ca, lo misero in officina, poi addirittura lo mandarono all’università, dove si laureò appunto in Meccanica a Charleroi e nel 1971 fu preso a raccomodare locomotive nella fabbrica Hainault Sambre, ma la sua passione e la sua salvezza fu la bicicletta.
“Tutti i miei compagni di miniera sono morti, o per incidente o per malattie polmonari ricorda le condizioni di lavoro erano orribili, niente controlli medici, maschere col filtro di cartone, sistemi di sicurezza inesistenti: basti pensare che per esempio a Marcinelle le porte anti incendio erano di legno e c’era un solo corridoio di salita e discesa. Nel film che hanno fatto non è vero che la colpa fu di un italiano e il regista non si è minimamente interessato a cosa successe veramente. Gli italiani non erano visti molto bene, anche perché erano quelli più robusti, tenaci e lavoravano il doppio. Così i belgi abbassarono i prezzi al metro cubo.”
Intanto lui pedalava e sputava fuori la fuliggine dai polmoni. “Due miei amici che correvano per la BIC mi portarono un giorno con loro, pensando di seminarmi facilmente lungo il percorso: visto che li superavo facilmente con una bici che in confronto era un ferrovecchio, mi presentarono al loro direttore sportivo. Questo vide la bicicletta, mi guardò interessato e mi portò a cor- rere la domenica dopo. Prima arrivai col gruppo, poi li polverizzai tutti e co- minciai a vincere tutti i premi. Erano gli anni 63/64 e correvo con la nazionale inglese sponsorizzata da una marca di whisky, poi per la Salvarani.”DSC_9805E nel 1983 istituì una gara “personale”: il Gran premio Internazionale Madon- na di Fatima e Sacro Cuore”. Questo di- ventò il Mundialito Open di Morro d’O- ro nel 1994 e da allora è diventato una pietra miliare del ciclismo amatoriale
che ogni anno vede impegnati ciclisti di ogni età e categoria su bellissimi iti- nerari che vanno dal Gran Sasso a Ro- seto degli Abruzzi. Il suo entusiasmo ha contagiato legioni di ciclisti in erba, ha valorizzato la conoscenza del territorio e dato un esempio di coraggio e tenacia nonché di orgoglio di razza.
Senza dimenticare il suo passato di minatore, tanto che per anni ha raccolto cimeli e testimonianze di quella dura vita da emigrante, mettendo insieme una preziosa collezione di oggetti per tramandare quanto oggi si tende a dimenticare, oltre a fare paragoni inadeguati. Dai ferri dei cavalli accumunati alla sofferenza umana nei pozzi alle lanterne da minatore, dai caschi ai picconi, da cartoline a fotografie, dalla famosa valigia di legno alla sirena che dette l’allarme della tragedia di Marcinelle, tutto è accumulato nella rimessa di Palladini, accanto ai tantissimi trofei ciclistici: una miniera di storia che dovrebbe diventare Museo Regionale, a onore del personaggio e vanto dell’Abruzzo.